Le rotte del traffico di eroina passano oggi attraverso il Kenya, in particolare nella seconda città del paese che ospita un grande porto: Mombasa. Buenaventura, in Colombia, è invece da anni uno snodo importante per il traffico di cocaina.
Le conseguenze per il tessuto sociale e l’economia sono, sia in Kenya che in Colombia, devastanti. Da Missioni Consolata di ottobre – web classico ∆∆∆ pdf sfogliabile ◊◊◊
Nel 2018, circa 270 milioni (stima media tra i 166 e i 373 milioni) di persone nel mondo ha fatto uso di droga almeno una volta. La maggior parte (192 milioni) ha consumato cannabis, mentre in 58 milioni hanno assunto oppioidi, categoria che riunisce gli oppiacei, cioè i prodotti derivati dal papavero da oppio – utilizzati da 30 dei 58 milioni di persone – e i loro analoghi sintetici, semisintetici o alcune sostanze prodotte naturalmente dal corpo. Seguono 27 milioni di utilizzatori di anfetamine e altri stimolanti, 21 milioni che usano Mdma (comunemente detta ecstasy) e 19 milioni di persone che fanno uso di cocaina.
Due delle puntate parlano di eroina e cocaina e dei centri nevralgici dei rispettivi traffici: il Kenya, e in particolare la città e il porto di Mombasa, e la Colombia, con il grande porto di Buenaventura.
Kenya il nuovo crocevia mondiale dell’eroina
L’eroina non viene prodotta in Kenya ma principalmente in Asia centromeridionale, specialmente in Afghanistan, dove il trenta per cento del Pil è legato alla produzione del papavero da oppio che dà lavoro a circa 600mila afghani.
Si tratta di un mercato in espansione, segnala il responsabile per l’Africa orientale dell’Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, Amado de Andres. La produzione di eroina è pari a 10mila tonnellate – la più grande negli ultimi 20 anni – e l’utenza si sta spostando dai ceti medio bassi a quelli medio alti. Il percorso che la droga seguiva per andare dalla zona di produzione all’Europa e al Nordamerica era la cosiddetta rotta balcanica; ma negli ultimi anni, a causa dei conflitti come quello siriano e dei maggiori controlli di frontiera legati all’arrivo dei migranti, quella rotta non è più sicura per i trafficanti che per questo si sono rivolti all’Africa orientale, specialmente al Kenya, con il suo porto di Mombasa, e alla Tanzania.
La posizione geografica di questi paesi africani ne fa una sorta di crocevia planetario da dove – approfittando dello scarso controllo del territorio da parte delle forze di polizia – la droga può essere poi facilmente distribuita nel resto del Continente e negli altri.
Il Kenya, continua Amado de Andres, è il paese ideale anche perché è stabile dal punto di vista politico, finanziario e commerciale, e ha una buona infrastruttura informatica che permette ai trafficanti di comunicare in modo efficace da un continente all’altro per coordinare il trasporto e anche il pagamento della merce, per il quale utilizzano la hawala, un sistema informale di scambio di denaro – riconosciuto dall’Islam – basato sulla fiducia delle persone, che permette di effettuare pagamenti senza effettivamente muovere denaro, rendendolo così praticamente impossibile da tracciare.
Il trasporto della droga, spiega de Andres, avviene su barche che si chiamano dhow, normalmente utilizzate per pescare e dotate di un frigo a una estremità. Nel vano che ospita il frigo si può introdurre e trasportare fino a una tonnellata di eroina.
Ma queste barche non possono avvicinarsi troppo alla costa per non rischiare di essere intercettate dalla polizia, perciò si avvalgono della collaborazione di imbarcazioni più piccole, che prelevano il carico e lo trasportano in punti meno sorvegliati della costa. Spesso si tratta di persone locali, pescatori keniani che spinti dalle grosse somme di denaro offerte loro dai trafficanti, accettano di aiutarli a scaricare e trasbordare la droga.
Uno dei metodi usati per il trasporto dell’eroina verso destinazioni esterne all’Africa, prosegue il racconto di Fox, è quello dei «container umani»: persone che inghiottono ovuli e prendono un volo per la destinazione dove la droga sarà venduta. Salim, uno degli intervistati, riporta che il trasporto di cento grammi permette di guadagnare mille dollari.
L’impatto sui giovani e sull’economia
Nella terza puntata del documentario, Fox incontra e intervista uno spacciatore – che ha il viso coperto e usa il soprannome di Mr. K – nella zona dove è nato e vive, cioè Kibera, il più grande degli slum di Nairobi.
Mr. K confeziona dosi di eroina raccogliendo da un mucchio di polvere bianca una quantità sufficiente a coprire mezza lametta da barba e facendo poi scivolare la sostanza in una cartina argentata che provvede a chiudere ripiegandone i lati. Una dose così si vende per tremila scellini, circa trenta dollari, e per acquistarla questo ragazzo kenyano paga fra i mille e i 1.500 scellini. In una baraccopoli dove lo stipendio medio è tra i 25 e i 40 dollari al mese, considera Amaryllis Fox, vendere eroina permette davvero di «svoltare».
Mr. K racconta che la prima volta che ha venduto eroina ha preso 50mila scellini (500 dollari). Non aveva mai guadagnato così tanti soldi. I clienti, continua, sono «nigeriani che stanno in prigione, cinesi, bianchi, ragazzini ricchi».
A cercare di contrastare un fenomeno che sta dilaniando la gioventù kenyana, dice Fox, si stanno impegnando politici come Mohamed Ali, un ex giornalista che nei suoi articoli si occupava della diffusione dell’eroina, che è stato fra i primi a definirla un’emergenza e che, per questo suo lavoro di informazione e denuncia, è stato eletto come parlamentare.
Lui e il giornalista John-Allan Namu, definiscono la città di Mombasa uno stato mafioso e non esitano a segnalare infiltrazioni nella polizia e il coinvolgimento di alcuni politici che «aiutano i signori della droga a venderla o trasportarla nel paese».
Le organizzazioni attive sul campo
L’arrivo dell’eroina in Kenya lo ha reso un paese non solo di transito, ma anche di consumo. Giorno per giorno, questa trasformazione è resa evidente «dall’aumento delle le zone dove i giovani vanno per comprare droghe e farne uso e anche dalla maggior propensione dei ragazzi a farsi coinvolgere in attività criminali», conferma Agnes Mailu, programme coordinator di Solidarity with girls with distress (Solgidi), un’organizzazione legata all’arcidiocesi di Mombasa che assiste ragazze in difficoltà.
Il documentario mostra la visita della conduttrice a una delle zone di Mombasa, un cimitero, dove i tossicodipendenti vanno per iniettarsi eroina. Qui, i volontari di un’organizzazione chiamata Muslim education and welfare association (Mewa) vanno a incontrare i tossicodipendenti cercando di dare loro assistenza, ad esempio fornendo loro siringhe nuove in cambio di quelle usate, e di coinvolgerli in un percorso per disintossicarsi.
«Oltre a Mewa», scrive padre Zachariah Kariuki, vice superiore dei missionari della Consolata in Kenya, «ci sono altri centri di recupero, anche pubblici, come il Centro di Miritini, controllato dal governo della contea» o il Reach out center, Teens watch, Coast general referral hospital, aggiunge Anges, e collaborano tutti con Nacada, l’Autorità nazionale per la campagna contro l’abuso di alcool e droghe.
«Le autorità», continua padre Kariuki, «stanno tentando di affrontare la situazione creando i centri di recupero o dotando i centri di salute di punti nei quali coloro che cercando di disintossicarsi possano trovare metadone. Anche i tribunali fanno del loro meglio e i servizi di intelligence sono impegnati a dare la caccia e perseguire i narcotrafficanti. Ma quello della droga è sempre un ambito rischioso e corrotto». «Le persone che vendono droga sono note», conferma Anges, «ma attraverso la corruzione il problema è stato normalizzato». E normalizzato, in questo caso, non significa eliminato, ma piuttosto incluso nella normalità.
La parrocchia dei missionari della Consolata a Likoni, Mombasa, segnala padre Zachariah, sta tentando di dare il proprio contributo realizzando un programma di formazione e sensibilizzazione con i giovani in modo da ridurre il loro rischio di esposizione alle droghe, che stanno penetrando anche nella scuola. «È chiaro», continua il missionario, «che i signori della droga usano i giovani della zona di Likoni per spacciare ai loro coetanei e li pagano per farlo. Succede di sentire di ragazzi prelevati a scuola dalla polizia perché coinvolti nello spaccio».
Colombia narcotraffico, un’idra a tante teste
Nel 2017, racconta Fox nella prima puntata del documentario, la produzione di cocaina è aumentata del 25% rispetto all’anno precedente, raggiungendo le duemila tonnellate. I consumatori, lo ricordiamo, sono stimati in circa 19 milioni nel mondo; negli Stati Uniti sono raddoppiati negli ultimi sette anni.
Rodrigo Canales, professore associato di comportamento organizzativo presso l’università di Yale, spiega che il prezzo della cocaina è rimasto piuttosto stabile (intorno ai cento dollari al grammo) negli ultimi venticinque anni perché la competizione fra gli operatori del mercato di questa sostanza non si gioca sul prezzo della merce ma piuttosto sulla capacità di garantire una produzione stabile e affidabile.
Dopo la distruzione del cartello di Pablo Escobar all’inizio degli anni Novanta, ricorda il generale di brigata dell’esercito colombiano, Hernando Flores, «non c’è più un unico cartello padrone di tutto». Ma questo ha creato un problema nuovo, cioè il fatto che il narcotraffico in Colombia ora assomiglia a un’idra: tagliata una testa, cioè un cartello, ne sorgono subito tante altre.
Ci sono 82mila famiglie colombiane che dipendono dalla coltivazione della coca per sopravvivere; coltivano illegalmente 400mila ettari di suolo pubblico perché non possono permettersi di comprare terreni. La raccolta della coca – così racconta un lavoratore di una piantagione a due ore e mezza di auto dalla città portuale di Buenaventura, sulla costa centro meridionale della Colombia – frutta fino a 300mila pesos al giorno, circa 90 dollari, per chi riesce a raccogliere sei sacchi di foglie.
Porto di Buenaventura, ricchezza per pochi
Quello di Buenaventura è il principale porto colombiano: invia merci verso 300 destinazioni, gestisce intorno al 60 per cento dell’import export colombiano, movimenta fra i 300 e i 500 container al giorno e genera un gettito fiscale pari a 1.8 miliardi all’anno.
Ma il grosso della popolazione della città non beneficia per nulla della ricchezza generata dal porto: povertà e diseguaglianze sono chiaramente visibili nelle strade e nei quartieri di tutta Buenaventura. Due persone su tre sono disoccupate, oltre la metà non dispongono di acqua potabile e l’ottanta per cento vive sotto la soglia di povertà.
La giornalista Natalia Herrera, che accompagna Fox in un giro della città, spiega che i bambini a cinque anni sono già in strada, esposti alle gang criminali e al narcotraffico. A dieci anni sono spesso già attivi come «sentinelle» che aiutano le gang a evitare la polizia, guadagnando per questo «servizio» 100mila pesos, circa 32 dollari americani.
A prelevare la cocaina nei punti che i trafficanti indicano loro, a nasconderla – ad esempio all’interno di pupazzi di peluche – e a trasportarla al porto, sono invece spesso giovani disoccupati. «Guadagno due milioni di pesos», spiega un ragazzo con il volto coperto che parla con Fox mentre ricuce il peluche dove ha inserito i pacchetti di coca. Sono circa 650 dollari, una cifra che quest’uomo guadagnerebbe in due mesi se facesse un altro lavoro. «Ho più paura dei narcotrafficanti che della legge», ribatte il giovane al commento dell’intervistatrice su quanto sia pericoloso fare quello che fa. «La polizia ti mette in galera, ma se commetti un errore per strada muori».
Il duro lavoro di chi si oppone
La violenza che accompagna il narcotraffico lascia bambini senza genitori, uomini e donne senza i loro compagni e, oltre che sul piano umano, nelle famiglie, gli effetti si avvertono su quello economico.
«Ci sono fondazioni che lavorano per combattere la violenza causata dal traffico di droga», scrive padre Lawrence Ssimbwa, missionario della Consolata di origine ugandese che da anni lavora a Buenaventura. «La più conosciuta è Fudescodes – Fundación espacios de convivencia y desarrollo social, creata da un sacerdote redentorista» e impegnata in programmi come Mujeres rompiendo silencio (Donne che rompono il silenzio) che danno sostegno e formazione alle donne che hanno perso il compagno e che devono ora provvedere da sole ai bisogni della famiglia.
«Anche la Chiesa cattolica è molto impegnata nel denunciare il traffico di droga e la violenza», continua padre Lawrence, «e per questo sia il precedente vescovo, monsignor Hector Epalza Quintero, sia l’attuale, monsignor Rubén Darío Jaramillo Montoya, hanno ricevuto minacce di morte da parte dei trafficanti di droga».
Il paro civico, cioè lo sciopero organizzato nel maggio 2017 dalla società civile di Buenaventura e durato 22 giorni, ha portato a una serie di accordi con il governo che prevedono un milione e mezzo di pesos in investimenti per migliorare la sanità, l’educazione e l’accesso all’acqua per la popolazione della città. Un ulteriore effetto delle proteste, ricorda ancora padre Lawrence, è stato l’elezione a sindaco di Víctor Piedrahita Vidal, che è uno dei fondatori del movimento che ha organizzato il paro civico.
Tuttavia, chiarisce il missionario, nonostante una maggior presenza delle forze militari nei quartieri, la violenza non è diminuita così tanto come si sperava. «Ogni settimana, nei quartieri, si sente di qualcuno che è stato ucciso o è sparito e ci sono ancora estorsioni e rapine sostenute da trafficanti di droga».
«La guerra alla droga è costata dieci miliardi e mezzo di dollari solo in Colombia», segnala Amaryllis Fox. «Mezzo milione di colombiani sono morti e lo scorso anno la quantità di cocaina trasportata è stata la più grande di sempre».