Secondo uno studio della Fao ogni anno un terzo del cibo prodotto a livello mondiale finisce nell’immondizia o si rovina prima di essere consumato, danneggiato da trasporti inadeguati o da pratiche agricole non efficienti. Nel contempo, un abitante su dieci del pianeta soffre di malnutrizione cronica, mentre due miliardi di persone sono sovrappeso e, di queste, 650 milioni sono obese. – Da Missioni Consolata di agosto – settembre 2019 – web classico ∆∆∆ pdf sfogliabile ◊◊◊
Secondo i dati della Fao ogni anno un miliardo e trecento milioni di tonnellate di cibo, pari a un terzo di quello prodotto, finisce sprecato.
Detto così può sembrare solo l’ennesimo numero del quale si fatica a farsi un’idea concreta. Ma proviamo a metterla in questo modo: immaginiamo dei container standard da 20 piedi e supponiamo di caricarli con 28 tonnellate di cibo ciascuno; immaginiamo poi di metterli sulle più grandi navi portacontainer attualmente esistenti, capaci di trasportare 21 mila container ciascuna. Per caricare 1,3 miliardi di tonnellate ci servirebbero 2.200 navi: buttare quella quantità di cibo equivale ad affondarne ogni giorno sei. O lasciare che 127 mila camion che trasportano uno di questi container svuotino la merce in una discarica.
Così fa più impressione, ma non è finita qua. Lo studio della Fao è del 2011, quindi non recentissimo. Per questo nel 2018 un gruppo statunitense di consulenti – il Boston Consulting Group – ha tentato di attualizzarlo e, secondo le proiezioni che ha ottenuto, lo spreco è aumentato: nel 2015 siamo arrivati a 1,6 miliardi di tonnellate, per una perdita economica pari a 1.200 miliardi di dollari. Una misura del denaro bruciato? Equivale a poco meno del Pil della Spagna, o a una trentina di manovre finanziarie dell’Italia.
Il Boston Consulting Group prevede anche che nel 2030 si arriverà a più di 2 miliardi di tonnellate di cibo perso o sprecato, pari a 1.500 miliardi di dollari.
Date queste premesse, il raggiungimento del sotto-obiettivo di sviluppo sostenibile 12.3 stabilito dalle Nazioni Unite («Entro il 2030, dimezzare l’ammontare pro-capite globale dei rifiuti alimentari e ridurre le perdite di cibo lungo le catene di produzione e fornitura, comprese le perdite post-raccolto») appare decisamente lontano.
Altro aspetto da considerare è quello delle conseguenze sull’ambiente: la produzione di questo cibo che poi non si utilizza è responsabile dell’8% delle emissioni di gas serra a livello mondiale: lo spreco alimentare emette gas serra come Russia e Giappone messi insieme.
Come si butta cibo nei paesi in via di sviluppo
Sempre secondo i dati Fao, i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo dissipano all’incirca le stesse quantità di cibo: rispettivamente 670 e 630 milioni di tonnellate. Tuttavia, lo spreco pro capite dei consumatori di Europa e Nord America è compreso tra i 95 e i 115 kg all’anno, mentre i consumatori dell’Africa subsahariana, dell’Asia meridionale e del sud-est asiatico buttano annualmente via fra i 6 e gli 11 chilogrammi. Viceversa, nei paesi in via di sviluppo le perdite avvengono prevalentemente non a livello del consumatore bensì nelle fasi di produzione e di trasformazione.
Lo studio di un caso pubblicato dalla Fao sulla produzione di manioca, pomodori e patate in Camerun illustra nel dettaglio quali problemi intervengono nelle varie fasi dalla raccolta alla commercializzazione. Nel caso del garri di manioca, cioè della manioca trasformata in farina, ad esempio, la perdita complessiva è pari al 41,6% rispetto alla produzione iniziale, con il 30% della perdita che avviene in fase di pre-raccolta o raccolta, il 5,6% durante la pelatura, il 3,1% nel momento in cui la si grattugia e il 2,9% nella fase di stoccaggio.
Una tecnica utilizzata per conservare la manioca, spiega lo studio, è ritardare la raccolta finché non vi è sufficiente domanda del prodotto. La radice tuberizzata può rimanere in terra fino a 18 mesi dopo la maturazione, ma se non raccolta nei tempi corretti diventa rapidamente legnosa. Inoltre perde amido e valore nutritivo ed è più esposta agli attacchi di insetti e roditori e alle malattie.
Pelatura e grattatura inducono un’ulteriore dispersione del prodotto perché sono quasi sempre effettuate manualmente, asportando più radice di quella che sarebbe necessario eliminare o eliminando pezzi troppo piccoli per essere grattugiati a mano. Altre perdite derivano dall’imballaggio del garri in sacchi di juta o di polipropilene non nuovi e non adeguatamente lavati che si rompono o che, ostruiti da altri residui, non lasciano passare abbastanza aria per garantire l’eliminazione dell’acqua durante la fermentazione e portano così il prodotto a marcire o a inumidirsi perdendo valore di mercato. Il resto, in fase di commercializzazione, lo fanno i tempi lunghi del trasporto dovuti alla stagione delle piogge o al dissesto delle strade, l’inadeguatezza degli imballaggi, la mancanza di refrigerazione, l’esposizione a sole, vento e polvere durante la vendita nei mercati.
Come si butta cibo nei paesi industrializzati
Nei paesi industrializzati, continua il rapporto Fao, i motivi della perdita sono legati ad altri fattori. In primo luogo, la necessità per i produttori di cibo di rispettare gli accordi presi per contratto con i rivenditori spinge a produrre più del necessario per assicurare la fornitura anche in caso di imprevisti – eventi naturali estremi, epidemie – che danneggino la produzione.
Vi sono poi gli standard molto rigidi legati all’aspetto dei prodotti: il rapporto cita una ricerca che lo scrittore e storico inglese Tristram Stuart ha realizzato per scrivere il suo libro del 2009 dal titolo Waste – Understanding the global food scandal. Stuart ha visitato un’azienda agricola britannica, la M.H. Poskitt Carrots nello Yorkshire, una delle principali fornitrici della catena di supermercati inglese Asda, legata al colosso statunitense della grande distribuzione Walmart. Nel corso della visita sono state mostrate all’autore grandi quantità di carote che, in quanto leggermente curve, venivano scartate e destinate al consumo animale. Nel settore del confezionamento le carote passavano poi attraverso dei sensori fotografici che rilevavano eventuali difetti estetici: le carote che non erano di un arancio brillante o che avevano macchie o che erano rotte venivano gettate in un contenitore di mangime per bestiame. Asda, riferiva lo staff dell’azienda, richiede che le carote siano dritte così che i consumatori possano pelarle con un solo, semplice gesto lineare. In questo modo il 25-30% delle carote veniva scartato, la metà per motivi estetici.
Altri motivi di perdita di cibo sono legati al processo produttivo industriale stesso, che rendono più sconveniente scartare cibo che utilizzarlo o riutilizzarlo. Come nel caso, citato dal rapporto, di un’azienda olandese produttrice di patatine fritte: tagliare le patate per renderle della forma e dimensione desiderata produce pezzi tagliati in modo irregolare che sono ancora del tutto commestibili ma che è più conveniente per l’azienda buttare che tentare di recuperare.
Ancora, il rapporto cita l’abitudine dei rivenditori dei paesi industrializzati a riempire gli scaffali per fornire al consumatore, che se la aspetta, la più ampia scelta possibile. In questo modo, però, i prodotti più lontani dalla scadenza vengono preferiti a quelli che scadono prima, benché questi ultimi siano ancora sicuri e commestibili.
Infine, pratiche come le offerte 3×2 nei supermercati o le formule all you can eat nei ristoranti, conclude il rapporto, invogliano i clienti ad acquistare e consumare anche ciò di cui non hanno necessità.
Che cosa si butta di più
A livello mondiale, frutta e verdura, insieme a radici e tuberi, hanno i più alti tassi di spreco di qualsiasi cibo, con il 45% di prodotto buttato. Spariscono anche un terzo dei cereali e un quinto dei latticini, della carne e dei semi e legumi. Finisce sprecato un prodotto ittico su tre e l’8% dei pesci catturati viene ributtato a mare morto, moribondo o pesantemente danneggiato.
Nell’infografica di Save the Food, l’iniziativa per la riduzione della perdita e dello spreco di cibo, la Fao propone esempi utilizzando un solo tipo di prodotto per categoria – mele per frutta e verdura, pasta per cereali, vacche per carne, e così via – per dare di quello che buttiamo una misura un po’ più visualizzabile rispetto alle percentuali. Ogni anno eliminiamo cibo equivalente a 3.700 miliardi di mele, un miliardo di sacchi di patate, 75 milioni di mucche, 763 miliardi di confezioni di pasta – cento per ogni abitante del pianeta – 574 miliardi di uova, 3 miliardi di salmoni atlantici e 11 mila piscine olimpioniche di olive.
L’Africa subsahariana perde poco meno di un terzo della carne, di cui la metà nella fase dell’allevamento, mentre l’Europa ne spreca un quinto prevalentemente concentrato nel momento del consumo. Quanto ai cereali, il Nord America e l’Oceania ne buttano oltre un terzo – circa il 25% nella sola fase di consumo e poco più del 10% nelle altre fasi – mentre l’Asia meridionale e il sudest asiatico ne disperdono un quinto soprattutto nella produzione e nella raccolta.
Che cosa si sta facendo
La risposta breve è: non abbastanza. Dal punto di vista legislativo diversi Paesi europei – fra cui Italia, con la legge 166/16 Francia e Regno Unito – hanno adottato misure per far fronte al fenomeno.
Vi sono poi numerose iniziative, alcune delle quali si avvalgono della tecnologia e della vasta diffusione dei dispositivi mobili.
L’app Too good to go (Troppo buono per essere buttato), lanciata tre anni fa da due allora venticinquenni londinesi, permette di verificare quali negozi o ristoranti nella propria zona hanno cibo ancora buono ma che non sarà venduto nella giornata, di pagarlo e di passare presso l’esercizio a ritirare la cosiddetta Magic Box, cioè la scatola contenente quanto si è acquistato. Altre app (o siti) permettono poi di scambiarsi con gli utenti il cibo che si ha in casa e che non si è in grado di consumare, di donare alimenti a associazioni caritatevoli, di leggere consigli su conservazione dei cibi e ricette per il riuso di ciò che rischiamo di non consumare, di visionare le offerte di prodotti alimentari vicini alla scadenza nei supermercati della zona, di compilare liste della spesa “intelligenti” per evitare di acquistare ciò che non ci serve, e così via. In Italia vi sono realtà come il Banco Alimentare, Terza Settimana e Equoevento, solo per citarne tre fra tante, e non mancano le iniziative di sensibilizzazione.
Tuttavia, commenta Shalini Unnikrishnan del Boston Consulting Group sul Guardian, la risposta globale è ancora frammentata, limitata e in definitiva insufficiente rispetto alla vastità del fenomeno.
Cibo perso:
è il cibo che va perduto nelle fasi della filiera
produttiva che riguardano la produzione, il dopo raccolta e la trasformazione.
Cibo sprecato:
è il cibo che va perduto nel punto finale della
catena alimentare, quella della vendita (negozi
e ristoranti) e del consumo ed è legata al comportamento di rivenditori e consumatori.