Nel 1994 Nelson Mandela diventava il primo presidente del Sudafrica libero e democratico, cioè post-apartheid, generando grandi speranze e aspettative. Oggi il Paese, tornato alle urne a fine maggio, si trova a tracciare un difficile bilancio di questo trentennio.
«Abbiamo trionfato nello sforzo di infondere la speranza nel petto di milioni di persone del nostro popolo. Abbiamo stretto un patto: costruiremo una società in cui tutti i sudafricani, sia bianchi che neri, potranno camminare a testa alta, senza alcun timore nei loro cuori, certi del loro inalienabile diritto alla dignità umana, una nazione arcobaleno in pace con se stessa e con il mondo». Così si rivolgeva al popolo sudafricano Nelson Mandela, leader del partito African national congress (Anc), nel discorso di insediamento come presidente del Sudafrica, il 10 maggio 1994.
Fra il 27 e il 29 aprile1994 si erano svolte le prime elezioni libere dopo la fine dell’apartheid, termine che indica sia la politica di rigida segregazione razziale e discriminazione economica che separava i bianchi dai non bianchi in Sudafrica, sia il sistema istituzionale e giuridico che ha messo in pratica questa politica dagli anni Trenta ai Novanta.
«La vittoria dell’Anc è scontata», prevedeva su MC poco prima del voto padre Benedetto Bellesi, missionario che in Sudafrica aveva lavorato dal 1974 al 1986, ma «Mandela non si fa illusioni. Dovrà riportare l’ordine nel paese: dal giorno della sua liberazione la violenza ha fatto oltre 13mila morti» (MC 4/1994).
Mandela aveva trascorso 27 anni in carcere per il suo impegno nella lotta all’apartheid ed era stato liberato nel febbraio del 1990: alla sua scarcerazione avevano contribuito il combinarsi di pressioni sia interne che internazionali, manifeste queste ultime anche nell’assegnazione, dieci anni prima, del premio Nobel per la pace al noto e pugnace arcivescovo anglicano sudafricano, Desmond Tutu, «per il suo ruolo di leader unificante nella campagna non violenta per risolvere il problema dell’apartheid in Sudafrica». Nel 1993, erano stati proprio Nelson Mandela e Frederik Willem De Klerk, allora presidente in carica in Sudafrica e leader del National party, a ricevere il Nobel per la pace: anche se questa non era ancora realizzata, scriveva sempre Bellesi, «si vuole premiarli per aver creduto al dialogo e incoraggiarli a continuare sulla stessa strada, disseminata ancora di tante incognite e ostacoli».
L’ultimo miglio della long road to freedom
Ostacoli come, appunto, la violenza: quella, scoppiata all’indomani della scarcerazione di Mandela e che aveva come protagonisti gli estremisti bianchi che non si rassegnavano alla fine dell’apartheid. Altri ostacoli come il rigetto, da parte del Congresso panafricanista di Azania, dell’ipotesi di convivenza multirazziale sostenuta dall’Anc; la volontà dell’Inkatha, il partito guidato da Mangosuthu Buthelezi, di costituire un regno zulu autonomo guidato dal suo re all’interno di un Sudafrica federale, cosa che lo portò allo scontro con l’Anc, provocando migliaia di vittime.
Ma c’era anche una violenza più antica e radicata, che innervava la società sudafricana. Ancora Bellesi: «L’apartheid è scomparsa, ma le sue disuguaglianze e ingiustizie sociali ci sono ancora tutte. Con un’economia tanto disastrata, non basterà un colpo di spugna a cancellarle, anche se la propaganda elettorale dell’Anc promette casa, scuola lavoro».
Il Sudafrica del 1994 era un Paese dove erano appena state abolite leggi come il Natives land act, la legge del 1913 che assegnava alla minoranza bianca prima il 93% e poi l’87% del territorio, e il Group areas act, del 1950, che Mandela, nel suo libro Long walk to freedom, definiva come il «fondamento dell’apartheid residenziale», per cui «ogni gruppo razziale poteva possedere terre, occupare locali e commerciare solo nella propria area separata». Da questo impianto giuridico, imposto da cinque milioni di sudafricani bianchi a 23 milioni di sudafricani neri, 3,4 milioni di meticci e un milione di asiatici, erano sorti i cosiddetti Bantustan, territori designati dal governo bianco come «patrie» nazionali per i neri, e le township o location, nomi che indicavano spazi urbani nei quali i sudafricani bianchi costringevano i non bianchi. La disoccupazione era al 20,1% e le persone che abitavano in baracche in aree senza alcun servizio erano circa sette milioni. Durante il dibattito elettorale del 14 aprile 1994, Mandela accusò De Klerk di aver speso per l’istruzione di un bambino bianco tre volte tanto di quanto aveva speso per un bambino nero.
Dopo Mandela
La presidenza di Mandela, durata fino al giugno del 1999, avviò il difficile lavoro di riconciliazione, consolidamento della pace e transizione democratica.
Ottantunenne alla scadenza del suo primo mandato, non si candidò per ottenere il secondo. Gli succedette il suo vicepresidente Thabo Mbeki – figlio di quel Govan Mbeki incarcerato con Mandela per il suo ruolo di leader di Umkhonto we Sizwe (tradotto come Lancia della nazione), l’ala armata dell’Anc – e poi altri tre presidenti, tutti dell’Anc: Kgalema Motlanthe, Jacob Zuma, fino a Cyril Ramaphosa, presidente dal febbraio 2018.
L’attuale non rosea situazione del Sudafrica, scriveva lo scorso anno Roger Southall, dell’Università di Witwaterstand, sul giornale online The Conversation, ha spinto diversi sudafricani a tentare di far ricadere sulle scelte di Mandela le responsabilità per i fallimenti successivi.
Secondo una parte dell’Anc, l’accordo raggiunto da Mandela sarebbe quindi stato una resa al «capitale monopolistico bianco», mentre la ministra del turismo Lindiwe Sisulu, figlia di un’altra figura chiave nella lotta all’apartheid, Walter Sisulu, critica la costituzione – frutto anche questa delle negoziazioni condotte da Mandela fra il 1990 e il 1994 – e i magistrati che la applicano e difendono. Questi sarebbero, a suo dire, «africani mentalmente colonizzati» alleati con le élite contro il popolo.
Vi sono poi le frustrazioni dei neolaureati e della massa di disoccupati neri, le centinaia di migliaia di persone che non hanno un alloggio adeguato e gli oltre due milioni di famiglie sudafricane, cioè più di una su dieci, che le statistiche del governo del 2021 indicavano come sofferenti la fame. I sudafricani, scriveva ancora Southall, vogliono qualcuno da incolpare.
La xenofobia degli ex oppressi
In questa ricerca di colpevoli, i migranti sono un bersaglio ideale. Secondo il censimento più recente (2022), i migranti presenti in Sudafricasono 2,4 milioni, di cui un milione dallo Zimbabwe, 416mila dal Mozambico, 227mila dal Lesotho, 198mila dal Malawi, 61mila dal Regno Unito e 8mila dall’Etiopia, per limitarsi alle prime cinque nazionalità. I rifugiati e i richiedenti asilo, riportava invece il «Rapporto sulla migrazione» pubblicato dal dipartimento di statistica lo scorso marzo, sono circa 170mila, principalmente da Etiopia e Repubblica democratica del Congo, ma anche da Bangladesh, Repubblica del Congo, Burundi, Zimbabwe, Pakistan, Somalia e Uganda.
Rispetto al totale della popolazione sudafricana, che nel 2022 è arrivata a 62 milioni, i migranti quindi sono quattro ogni cento persone. Eppure, un sondaggio del 2021, riportato da Bbc lo scorso settembre, mostrava che metà degli intervistatiera convinta che i migranti presenti nel Paese fossero fra i 17 e i 40 milioni.
Queste percezioni si combinano con un tasso di disoccupazione oltre il 30%, il più alto al mondo, che aumenta al 60% fra i giovani sotto i 25 anni. «Una sensazione diffusa nella popolazione locale», scrive padre Samuel Gitonga, missionario della Consolata che lavora a Kwaggafontein, a circa cento chilometri da Pretoria, «è che gli stranieri stiano togliendo lavoro ai locali e stiano approfittando di risorse e servizi che spetterebbero ai sudafricani», mentre nei fatti ne sono spesso esclusi. Ai migranti viene attribuito l’aumento degli episodi di criminalità. Si diffondono dicerie, come nel caso di alcuni messaggi girati sui social, per avvertire «i sudafricani di stare attenti agli stranieri che avvelenano i bambini con i prodotti dei loro negozi di dolciumi», cioè nei cosiddetti tuck shops che sono spesso gestiti da immigrati.
Nel settembre dell’anno scorso, spiega padre Samuel, a Dennilton, uno dei villaggi seguiti dai missionari, gli abitanti hanno cacciato diversi stranieri accusandoli di stregoneria.
Questo contesto crea i presupposti per le aggressioni contro i migranti e per l’emergere di gruppi come Operation Dudula, un gruppo xenofobo poi diventato partito politico. Operation Dudula sperava di riuscire ad approfittare dell’eventuale calo nei consensi dell’Anc che prima delle elezioni risultava, per la prima volta in 30 anni, essere sul filo della maggioranza dei voti (mentre scriviamo, le elezioni devono ancora avvenire).
Al di là della propaganda delle formazioni xenofobe, continua padre Samuel, gli esempi di discriminazioni nei confronti dei migranti non sono difficili da trovare: «Durante il lockdown per il Covid, il governo ha distribuito pacchi alimentari alle persone che ne avevano bisogno, escludendo però i migranti. Inoltre, ci sono segnalazioni secondo cui alcuni operatori sanitari negli ospedali pubblici negano i servizi agli stranieri». E ancora: il Sudafrica dispone di un fondo per gli incidenti stradali che copre le spese mediche e il risarcimento delle perdite subite da chi è vittima di un incidente stradale e ci sono stati tentativi di interpretare la legge in modo da non coprire chi non è sudafricano.
Migranti per strada
«Le persone con cui lavoriamo si erano accampate in strada fuori dagli uffici delle Nazioni Unite a Pretoria, sperando di attirare l’attenzione e di vedere soddisfatti i propri bisogni più elementari». A parlare è padre Daniel Kivuw’a, missionario della Consolata che lavora nella capitale amministrativa del Sudafrica, collaborando con l’arcidiocesi e con la Caritas. «Un’ordinanza del tribunale ha stabilito che queste persone dovevano spostarsi in un insediamento informale e, una volta trasferite, avrebbero ottenuto assistenza. Ma, di fatto, appena si sono stabilite nell’area assegnata, sono state abbandonate: per questo la chiesa locale si è attivata in modo da fornire almeno cibo e materiale per l’igiene personale a settanta famiglie». È padre Daniel che gestisce il progetto insieme al comitato della Caritas della parrocchia Christ the king di Queenswood.
Il lavoro dei missionari della Consolata in Sudafrica oggi, spiega il superiore della Delegazione, padre Nathaniel Mwangi, si svolge in sei comunità nelle diocesi di Pretoria, Johannesburg e Durban e riguarda soprattutto le attività pastorali e quelle legate a emergenze, come nel caso dei migranti o, durante la pandemia, l’assistenza a persone indigenti che a causa delle restrizioni avevano difficoltà a procurarsi il cibo.
«Per i progetti in settori come l’istruzione, la sanità, l’accesso all’acqua, la sanificazione», spiega padre Fredrick Agalo, che in Sudafrica ha lavorato dal 2015 al 2019, «la domanda che le autorità locali fanno è: “Può farlo il governo?”. Se la risposta è sì, allora è escluso che enti non sudafricani, come una Ong o un Istituto missionario, ottengano il permesso di realizzare iniziative di sviluppo».